“Il Tempo Non Perdona” – racconto di Clara Cecchi
Mi alzo presto come ogni mattina, ma non per fretta, nemmeno sarebbe necessario lo facessi. E’ rimasta un’abitudine di madre radicata nel tempo, ai giorni lontani in cui i figli piccoli andavano svegliati, lavati, vestiti e nutriti prima della quotidiana corsa a scuola, quasi perennemente in ritardo, con il fiato tirato e il magone stemperato da un sorriso e un bacio davanti al portone.
Ora non è più quel tempo di affanni e carezze, però mi alzo lo stesso alla medesima ora, mi preparo il caffè e con la tazzina in mano prendo pian piano confidenza con il nuovo giorno: capisco subito se sarà una buona giornata o meno dalla luce che filtra attraverso le persiane ancora chiuse. Se la luce è chiara, luminosa, allora anche il mio umore mutevole ne sarà influenzato positivamente, se invece prevale la coltre di grigio la giornata si preannuncia noiosa e difficile.
Sempre con la tazzina in mano, in vestaglia, vago lungo il corridoio e le stanze, apro finestre e richiudo armadi lasciati aperti, raccolgo abiti dismessi, rifaccio letti fra un sorso di caffè e l’altro. Anche questa è un’abitudine che non riesco a togliermi…quella di fare più cose contemporaneamente. Potrei rimanere tranquilla nel tepore mattutino del mio letto, il migliore per il sonno, il più gustoso…e invece appena la porta di casa si è richiusa dietro di loro per riaprirsi solo a tarda sera ecco che dentro di me squilla il campanellino, quell’atavico senso del dovere, nemmeno ben definito, se vogliamo, ma pressante che mi spinge a mettermi in moto, ad avviare il motore e partire…ma per dove? Non l’ho mai saputo, né lo so ora. E forse non lo saprò mai.
Inquieta, passo da un’incombenza all’altra, ne inizio una e subito dopo l’abbandono appena il pensiero vagante mi porta verso un’altra, e da lì un’altra e un’altra ancora, fino a tornare al punto di partenza, come in una giostra…ma quando comincio a disperare di vederne la fine ogni cosa torna sempre al suo posto, quasi per magia. Ormai lo so, è così da anni: eppure mi preoccupo ogni volta.
Ci ho riflettuto spesso: credo sia un retaggio di quando il tempo non bastava mai a fare tutto e avrei voluto allungarlo come un elastico per poter arrivare a sera meno stremata e senza sensi di colpa. Una donna prova sempre sensi di colpa, prima verso i figli, poi verso il marito, il lavoro, i genitori, gli amici…vorrebbe avere tempo sufficiente per tutti. E quando, passati gli anni più faticosi, riesce finalmente a superarli, ecco che arriva strisciante il senso di colpa più subdolo e più feroce, quello verso se stessa. Ed è il peggiore di tutti. Allora il tempo che aspiravi a recuperare diventa inesorabilmente lungo, implacabile con i pensieri che vorresti mettere da parte, con i rimpianti che vorresti evitare, con le ansie che vorresti dimenticare, con i desideri che vorresti ignorare. Se ne sta lì tutto per te, pronto ad accogliere e incoraggiare ogni tua minima riflessione e anche se non vorresti lo devi subire per intero, fino all’ultimo secondo.
E’ per questo in realtà che anche oggi mi alzo presto tutte le mattine senza averne bisogno, io lo so: ora il tempo mi chiama, ne ho perso tanto per me, l’ho sfuggito per tanti anni rincorrendo infinite cose da fare per tutti loro e ora lui si vendica e chiede di essere vissuto fino in fondo anche se non so più che farmene, anche se mi angoscia…pretende tutta la mia attenzione, la esige mio malgrado.
Ora, sola nel silenzio della mia casa, da quando apro gli occhi la mattina a quando li chiudo la sera prima di dormire sono costretta a percepire anche lo scandire di ogni singola frazione di secondo: le lancette del tempo fanno un rumore insospettabile per chi non ha tempo di ascoltarle. Per questo giro inquieta per le stanze inventandomi mille cose da fare: è il tempo perduto da recuperare, il tempo che non so come zittire, troppo tempo ora…
E il tempo non perdona.
Clara Cecchi