Il Rito dell’Uomo Cervo a Castelnuovo al Volturno
Domenica 3 marzo 2019. Uno splendido sole luccica sull’Alta Valle del Volturno, Molise, esaltando la “Luce delle Mainarde, che tanto piace a pittori e a fotografi, e dove dal Monte Azzone o Rocchetta sgorgano le acque del più importante fiume dell’Italia meridionale: il Volturno.
L’appuntamento è alle 16,30 nella piazza di Castelnuovo al Volturno, piccolo paesino di 200 abitanti che è frazione di Rocchetta a Volturno. Siamo ai piedi delle Mainarde Molisane, territorio ad alto valore ambientale, come recitano i cartelloni turistici, ubicato proprio sotto lo storico Monte Marrone, montagna dalla quale, nel 1943, prese il via la Resistenza al nazifascismo. A Castelnuovo al Volturno, morì, dilaniato da una mina, a soli 19 anni, il giovane e promettente intellettuale antifascista Giaime Pintor, fratello del più famoso Luigi, fondatore del quotidiano “Il Manifesto”.
Arriviamo puntuali, ma già troviamo un fiume di macchine in sosta, per cui dobbiamo parcheggiare l’auto ben lontano dal paesino, sistemandola lungo la strada che porta a Scapoli, paese dirimpettaio di Castelnuovo, famoso per le zampogne e per i ravioloni farciti di bieta, salsiccia e formaggio. La bella giornata e la sempre maggiore notorietà della manifestazione che andiamo a vedere, hanno attratto una marea di spettatori.
La rappresentazione alla quale andiamo ad assistere, è il “Rito dell’Uomo Cervo” (“Gl’Cierv”, in dialetto locale).
È uno spettacolo che si ripete ogni anno, a Castelnuovo al Volturno, nell’ultima domenica di Carnevale. È un rito ancestrale che affonda le sue radici nella preistoria, quando l’uomo non dominava, né controllava, né sapeva spiegarsi ancora le forze della natura; le temeva e le fronteggiava con il mito, la magia, il sacrificio e gli scongiuri.
Dopo un preludio nel corso del quale si esibiscono alcuni gruppi folkloristici, tra i quali spiccano i Mamutzones di Samugheo, maschere zoomorfe sarde molto affini al Cervo di Castelnuovo, che si esibiscono per dare intrattenimento al pubblico che attende lo spettacolo del “Rito”, arrivati all’imbrunire, si dà il via alla rappresentazione.
Si inizia con la danza delle Janare, le streghe famose in tutto il Sannio (anche l’Alta Valle del Volturno è territorio sannitico, originariamente abitato dalle tribù dei “sanniti pentri”), guidate dal Maone, spirito malefico dei boschi. La danza delle Janare richiama e sottolinea la malvagità e l’inaffidabilità della natura che incombe sull’uomo preistorico, minacciandolo e terrorizzandolo.
Dopo la suggestiva e accattivante danza delle megere, che si effettua intorno al fuoco, ecco arrivare il Cervo.
Esso rappresenta la forza travolgente e incontrollabile della natura, che tende a sbaragliare tutto ciò che ostacola il suo incedere. L’Uomo Cervo di Castelnuovo è alto, possente, furioso e stravolgente, ed è vestito di pelle di capra ricoperta di campanacci che accompagnano, con i loro suoni, tutti i movimenti della “bestia”. Sulla sua testa spicca un enorme palco di corna che, come sanno tutti quelli che guardano i documentari televisivi sugli animali, raffigurano e configurano la potenza dei maschi appartenenti alla famiglia dei cervidi.
L’alter-ego del Cervo è la Cerbiatta che, sebbene sia rappresentata in forma più aggraziata, come si conviene a una figura femminile, non è da meno del suo compagno in quanto a violenza e ad attitudine alla devastazione.
Il pubblico, ammutolito, e stavolta non infreddolito, perché siamo a marzo (quando la rappresentazione, che coincide sempre con l’ultima domenica di Carnevale, viene fatta a febbraio, gli spettatori, pur di assistere all’emozionante spettacolo, sono costretti a sopportare, eroicamente, il freddo delle serate invernali appenniniche), segue con trepidazione e partecipazione la pantomima.
Al Cervo e alla Cerbiatta seguono le entrate in scena di Martino, una maschera che rappresenta la mitezza delle popolazioni locali, molto simile, nell’aspetto, al Pulcinella napoletano, e la Pacchiana. Entrambi tentano di ammansire le bestie. La Pacchiana, in particolare, tenta di rabbonirle con un offerta di cibo. Ma i loro tentativi si rivelano vani.
Alla fine, solo l’intervento del Cacciatore riesce ad avere ragione delle fiere. Egli, infatti, con due precisi colpi di fucile, abbatte i due animali, confermando l’assunto del famoso filosofo tedesco con la barba, il quale scriveva che “la violenza è la levatrice della storia”. In questo caso, la violenza è anche levatrice della natura, perché le due belve, insufflate, dopo il decesso, dallo stesso Cacciatore che gli ridà la vita, soffiandogli nelle orecchie il suo alito vitale, tornano ad esistere domate e rigenerate, ratificando, in questo modo, l’eterna legge che senza una dipartita, non c’ è una resurrezione; e che senza l’epilogo dell’Inverno, non c’è la rinascita della Primavera.
Il “Rito dell Uomo Cervo” si distingue dalle altre manifestazioni similari per il fatto che si sviluppa attraverso una pantomima (solo la Pacchiana prende parola, confermando, simpaticamente, lo spirito democratico degli organizzatori che danno “voce” esclusivamente al popolo), e quindi attraverso una vera e propria recitazione mimica e danzante. Tutte le altre manifestazioni italiane, e forse europee, incentrate sulla presenza di maschere zoomorfe, fanno solo esibire e sfilare i loro protagonisti; ma non li raccontano con una rappresentazione che preveda un sia pur minimo e sostanzioso canovaccio, come accade, invece, a “Gl’Cierv” di Castelnuovo al Volturno.
Pasquale Nusco